venerdì 30 gennaio 2009

Cambiamenti

Oggi pensavo, ancora una volta, a quanto poco contino l'indole naturale, la genetica, il carattere a definire quello che siamo e come ci comportiamo. Un niente rispetto alla cultura che ci circonda dalla nascita.

Io sono cresciuta in Italia, immersa in una cultura pressapochista, imprecisa, istintiva - sia in famiglia che a scuola; e in televisione, e sui giornali.
La prima volta che sono venuta in contatto con le conseguenze delle mie azioni è stata quando la mia amica delle medie smise di rispondere alle mie telefonate. In maniera forse un pò plateale, mi fece pur sempre notare che era stufa dei miei continui bidoni.
Ai tempi alzai le spalle arrogantemente, ma ora mi rendo conto che il mio comportamento rifletteva un discorso di questo tipo: "Dico di sì a tutto, poi se scopro che non posso, annullerò...".

A 19 anni iniziai il mio primo lavoro, part time, come maschera teatrale. Sebbene generalmente prendessi il lavoro sul serio, mi riservavo sempre, in qualche occasione, di cancellare un turno per cui avevo dato disponibilità - magari all'ultimo momento, fingendomi malata.
Era un comportamento all'italiana - in fondo andavo fiera di quell'abilità di aggirare gli ostacoli; di quell'arte di cavarsela, di arrangiarsi, di ottenere dal mondo ciò che volevo. In un modo o nell'altro.

"La puntualità è una perdita di tempo", citavo baldanzosa da Oscar Wilde. In fondo, il mio tempo era tutto ciò che mi interessava.
Poi ho perso altre due amiche in un colpo solo. Stanche di aspettare, avevano fatto fronte comune nel modo più militaresco possibile. Tuttavia, una personalità fondamentalmente calda mi impediva sempre di trovarmi completamente sola - e così evitavo ogni autocritica.

Poi sono partita per la Finlandia. I tramonti eterni di Agosto mi osservavano dalla finestra. I treni spaccavano il secondo e non mi aspettavano, neanche se correvo. Un ritardo non annunciato era abbastanza perchè Kaisa, Jenni e Liisa non mi rivolgessero più la parola.

In quei bui pomeriggi invernali, Juha mi aspettava al gelo, senza mai entrare nel bar prima che io arrivassi. Quando arrivavo - in ritardo di 20 minuti e dopo 5 messaggi di scuse - lui mi guardava sorridendo, come a dire "Italialainen..."; ma io mi vergognavo del mio comportamento.

La puntualità mi è entrata nel sangue come un virus. Dev'esserci rimasta, perchè non ho mai più fatto quei ritardi di ore a cui avevo abituato i miei amici. A dirla tutta, non ho mai più fatto ritardi che superassero i 10 minuti. Ancora, la società in cui viviamo detta le nostre regole, e in Italia spaccare il minuto semplicemente non ha senso.

Ma non è la questione superficiale che può sembrare. In Finlandia ho imparato il rispetto per gli altri. Ho imparato la precisione, e il valore della mia parola. Ho assorbito delle regole, anche se so che queste esistono anche per essere, a volte, superate.
Ho mantenuto la flessibilità di un'italiana; e la passione, l'intuito, la consapevolezza che niente, in questo mondo, vale più del valore che noi gli diamo. Ma ho buttato via il menefreghismo, e la convinzione che ciascuno è un'isola, e che il prossimo vada fregato, prima che lui freghi noi. So che molte cose ci sopravviveranno, e le strade che sporchiamo oggi saranno dei nostri figli domani.




Tempo

Tutt'a un tratto mi sono trovata con una quarantina di ore in più del previsto prima di una scadenza. E' stato un po' come se qualcuno avesse aperto gli anelli del mio organiser e ci avesse infilato un paio di fogli extra: così, come regalo. Come se si potesse fare click destro e aggiungi colonna nell'agenda di Outlook, tra il giovedì e il venerdì. Un'intera giornata a mia disposizione.

Mi sono sentita un po' come quando la prof diceva "vabeh, rimandiamo il compito a domani", e io mi lasciavo cascare dietro al banco pensando "sììì un'altra giornata per studiare". Che poi le usassi o meno per studiare, quelle ore avevano un sapore impagabile.

Mi sono avviata in centro in volata - nella testa il motivetto Disney "Il mondo è mio" - apri gli occhi e vedrai (neanche la mia bici fosse il tappeto magico di Aladdin). Il tragitto casa-centro mi prende normalmente 3 minuti; 4 se devo fermarmi all'incrocio. Detesto fermarmi all'incrocio. Quando riesco a tirare dritto, la giornata inizia col piede giusto (stamattina ho rischiato).

Per prima cosa, mi sono fermata da Starbucks, e dilungata più del previsto nei rituali mattutini. Tazza grande, Guardian appoggiato sul tavolo a fianco, appuntamento con l'amica.
Poi ho oltrepassato il King's college tinto dei colori del sole invernale, come acquarello su tela. Quel tratto mi piace per due motivi. La costruzione imponente e gotica del college acquista ogni giorno una luce diversa. Il cielo dicembrino, limpido e azzurro, lo rendeva elettrizzante come un invito. La luce velata di stamattina, lo avvolgeva come il castello di una fiaba. Mi piace anche perchè è l'inizio del lungo rettilineo, recentemente asfaltato, che mi porta alla business school in tutta velocità.

Normalmente guardo gli scaffali della biblioteca con un peso nel cuore. Mi ricordano quante cose ho da fare; quante lacune di conoscenza da colmare in tutta fretta quest'anno. I libri, nuovi e lucidi, in quella biblioteca pulita e luminosa, mi ricordano che non ho ancora imparato a organizzare il mio tempo. Gli altri lo dividono in ordinati cubi, io lo regalo spesso al primo conoscente che mi chiede di bere un caffè.

Oggi però, ogni libro mi dava l'inebriante sensazione della cultura in potenza. Quanto avrei potuto leggere in queste ore! Quanti concetti, nozioni, collegamenti impensati in quei libri di management! Organizzazione, marketing, comportamento dell'azienda. Economie mondiali. Microeconomie. Regolamentazione dei flussi finanziari. Tutti quei concetti che ci girano intorno, tutti giorni, i concetti da cui dipendono le nostre vite - o almeno la nostra agiatezza - e che pure la maggior parte della gente si sente di poter ignorare. Cose da addetti ai lavori. Fino a che non si tramutano in licenziamenti in tronco e voci che anche il nostro reparto è in pericolo!

Ho studiato pubblicità, and I'd better make it useful.




martedì 27 gennaio 2009

Vampiri

Invece di occupare il mio tempo in attività costruttive quali, per esempio: la lettura del manuale di economia; cercare di non essere l'unica della classe a prendere insufficiente nel compito di statistica; prepararmi per quel famoso colloquio che potrebbe garantirmi un buon, saldo, glamorous posto di lavoro... Invece di tutto ciò, dico, io vado in giro a infatuarmi dei vampiri.

Non che ne girino tanti, in quel di Cambridge. Al massimo qui si può trovare qualche zombie sull'orlo del coma etilico; un undergraduate vestito da sacco dell'immondizia; qualche vicino di casa dalla stretta di mano gelida e umida - non basta certo questo a fare un vampiro.

Più la mia routine è severa e senza fronzoli, più io mi illanguidisco, mi faccio vittima dei romanzi, dei film romantici, delle canzoni di Bon Jovi. Ma tutto è questo è niente in confronto alla cotta che mi sono presa per Twilight, il film più riuscito di tutti i tempi nella categoria... -- beh, nella sua categoria.

Insomma, un vampiro è il massimo, chi non ne vorrebbe uno. Così misteriosi, così introversi, così problematici. Io, come tutte le donne, ho un pò la sindrome dell'effetto-salvifico. Non so che sindrome sia di preciso. Si manifesta come una tendenza verso l'uomo tenebroso, dal cuore di ghiaccio che si scioglierà solo per noi. Quel forte un pò indifeso. Quel timido ma indipendente. Quello che si fa i cazzi suoi ma poi appare all'ultimo quando ci deve tirare fuori dai guai. Se poi è emarginato, con un pò di senso di superiorità nei confronti di tutto e tutti, meglio ancora. Se poi ha dei poteri sovrannaturali e muore dalla voglia di succhiarti il sangue, praticamente mi sono già innamorata.