lunedì 16 marzo 2009

Senza parole

Considerando la mia vita ad oggi, naturalmente riconosco di essere stata felice più di una volta, più o meno a lungo. Tuttavia, solo una volta, in tutta la mia vita, ho provato quella baldanzosa, elettrizzante sensazione di essere felice qui e ora: felice nel presente. Non era la timida contentezza di chi "sta bene con se stesso". Non era effimera come la gioia, nè duratura come la serenità. Era una sensazione revitalizzante, sconsiderata eppure perfettamente cosciente; era pura euforia che si rinnovava giorno dopo giorno.
Era l'inizio dell'inverno del 2006. Non avevo un solo pensiero al mondo, nè una preoccupazione che non potesse svanire con poche ore di treno.
Mi chiedo se proverò mai più quella sensazione. Mi chiedo se quella sensazione sia indissolubilmente legata all'innamoramento, e se debba quindi dedurne che solo una volta, in vita mia, sono stata innamorata.
Ma in fondo credo che l'innamoramento, da solo, non basti a creare quell'attimo, che è ben più raro dei movimenti del nostro cuore incostante.

sabato 7 marzo 2009

Cambridge

Because so much of my thinking comes up in English anyway, and my Italian prose is packed with English words no matter how hard I try, I might as well write in full, plain English. Which kind of defeats the purpose of having a blog in the first place, namely to keep up my Italian.


I'm also sorry for a few mysterious readers that apparently access this page regularly from Turin and Bergamo (I’ve got no friends in Bergamo so that’s really sweet of them, isn’t it), so I guess I’ll open another page somewhere else. Here’s the beauty of the internet: the freedom to clutter the net with unwanted and unnecessary writing.


I feel better already. It’s like giving up to a vicious pleasure. The joy I get from writing is just as much in either language anyway (almost so: the narcissistic pleasure I get from the sound of my words in Italian has no equal).


I was thinking that I’ve never lived in a place that was, like Cambridge is, so plain pretty. I have never seen so little ugliness when walking to school, or strolling in the centre. Ugliness is nowhere to be seen, almost erased from the memory. I can’t explain it. I guess it’s like living in one of those pretty little towns of ours: Siena, Mantova, Pisa. I get up and walk into a quite, residential street. I free my bike and I’m in the centre. Few cars. Narrow streets. Stunning architecture, which I’ve learnt to take for granted, but which improves your life by a great deal. The air seems crystal clear. I love cycling fast, but I also love taking the time to look around. I love King’s, with its gothic towers. I love that corner that leads me to the Market Square when I’m in need to go to Starbucks. In fact, I love Starbucks that doesn’t interfere with the landscape. I never feel so fully integrated into this society as when I shop, which is kind of sick, but it’s a great feeling. Spending money that I don’t have, as everybody else seems to be doing with such pleasure.


And the Judge Business School. Come on, my school is just great. I never will understand people that don’t like its style. It’s colourful and cheerful, but still tidy and minimalistic. It’s like being in Charlie and the Chocolate Factory, but it’s so new and shiny. “Judge” for yourself:







venerdì 6 marzo 2009

On top.

Dopo aver studiato le teorie di gender declinate in ogni aspetto della vita e dello scibile, mi rendo conto di essere comunque rimasta ferma, per anni, all'idea di femminismo che avevo da bambina.

Tutto sommato sono in buona compagnia, perche' anche la societa' e la maggioranza delle donne sono rimaste allo stesso punto, la problematica femminile completamente ibernata. Come se non fosse piu' un problema, fosse ora di andare avanti e occuparsi di cose "piu' serie".

Dunque dipende tutto da noi, da quanto duramente siamo disposte a lavorare e quanto siamo disposte a sacrificare (matrimonio, maternita', cura di noi stesse) per accaparrarci qualcosa che tutto sommato non ci appartiene: il successo in battaglia - un buon lavoro, denaro, indipendenza, potere.

Sono cresciuta con l'idea che per avere successo nella vita dovevo essere "tosta". Ovvero sono cresciuta con un'idea di successo gia' declinata al maschile: il successo che si ottiene quando gli old boys ti accettano nel loro club di partite a golf e gare di rutti. Il potere di umiliare i sottoposti, piuttosto che il potere declinato al femminile, power to make things happen.
Sono cresciuta determinata a combattere quella battaglia insensata che gli uomini identificano come unica modalita' di fare business.

Quest'atteggiamento, pero', si e' scontrato un giorno con il mio sviluppo fisico. As simple as that. La femminilita' - di cui ovviamente non mi ero dovuta preoccupare da bambina - rappresentava un ostacolo enorme sul cammino da schiacciapietre che avevo preparato per me stessa.
No, non erano "quei giorni" il problema. Non ho mai sofferto di dolori mestruali - in case anybody should know - e non erano quelli che mi impedivano di andare a sciare con mio padre*, o svegliarmi alle sei per dimostrare che potevo tenere sottocontrollo i miei bisogni.

D'altra parte (e purtroppo e' ancora necessario esplicitarlo), nemmeno mi sono svegliata un giorno illuminata dall'idea che il vero successo per una donna era sfornare figli e infornare torte.

No, a tredici anni mi sono ritrovata li', nel mezzo, frammentata. Convinta che il potere e il successo richiedevano una forza e una brutalita' che io, semplicemente, non avevo. Ho deciso di rinunciare. La brutalita' e la prepotenza non erano nelle mie corde, e cosi' mi convinsi erroneamente di non essere una persona competitiva. Di nuovo, pensavo alla competitivita' declinata al maschile: aggressiva attitudine al dominio, showing off, outrunning, ultimately excelling at the art of the war.

A 13 anni ho deciso di arrendermi a un modello di femminilita' altrettanto stereotipato e che non sentivo comunque mio, ma che era pure sempre piu' mio di quel modello di "tough bitch" che gli uomini gia' cominciavano a cucirmi addosso.

Le mie scelte accademiche riflettono quest'abbandono, e anche quelle personali riflettono un'attitudine a drift off e a far decidere gli altri per me.
Ho studiato lettere perche' ero stata costretta ad abbandonare il mio piano, e non ne avevo trovato uno alternativo. Ho studiato lettere perche' pensavo che non sarei stata la breadwinner anyway - so why bother?

Avere un piano e' fondamentale, per non disperdere le proprie energie. Il piano - quello che vogliamo dalla vita - puo' cambiare in maniera radicale, ma e' come un Nord che non puo' mai oscurarsi del tutto. C'e' una donna, amica di amici, di cui sento parlare, che e' l'incarnazione di tutto cio' che aborro, che non vorrei mai diventare. E' evidente che non ha un piano, e che stima cosi' poco quello che e' e che ha costruito, cosi' poco da mandarlo all'aria per un uomo (che non la ama). Non e' il fatto che non ha una carriera, ne' un marito, ne' un figlio a darmi i brividi. E' che e' una donna che mostra chiaramente di non rispettarsi, e non pretende il rispetto degli altri. Cosi' facendo, rema contro l'operato di milioni di donne che sono al contrario whole, smart and accomplished, e che soprattutto lottano per una cosa. Essere prese sul serio.

Quit bein' a girl, for Christ's sake.

Il successo a cui aspiro oggi, per il mio futuro, e' la soddisfazione di avere un lavoro stimolante ad un compenso adeguato. Le donne devono smetterla di fingere di non essere interessate ai soldi, di non chiedere promozioni e aumenti. Nella mia famiglia vorrei che non ci fosse un breadwinner designato piu' o meno esplicitamente, ma piuttosto un senso di squadra.

Vorrei scalare la gerarchia che gli uomini hanno creato, e aspirare ai top jobs, ma con le mie regole, e non al prezzo dell'alienazione. Even if it takes to change company every two years.

I want to be fulfilled enough as a worker to be a good mother.

Vorrei solo che questa frase non debba avere il sapore paradossale che invece ancora ha, e manterra' per molto tempo ancora.



* sullo sci come simbolo maschile di forza, forse ci vorra' un altro post.

mercoledì 4 marzo 2009

If you liked it then you should have put a ring on it.

Qualche giorno fa mi trovavo da Harrod's nel reparto gioielleria. In realtà chiamarlo reparto è un torto che neanche una come me - fondamentalmente disinteressata alle pietre preziose - si può convincere a fargli. Infatti non è un reparto come la macelleria, o come per esempio il reparto uomo, donna o bambino. Più che altro è un tempio. Un tempio vasto e scintillante a cui si accede per vie misteriose e occultate alla vista, neanche si debba evitare che troppe persone ne varchino l'ingresso. Per la prima volta ho capito come si sentiva Audrey Hepburn a fare colazione da Tiffany.

Basta: non si può portare una 24enne nubile tra cotanto splendore e aspettarsi che non cominci a soppesare gli anelli di diamante. Nella fattispecie, i miei gusti sono tradizionali, e si possono riassumere con lo slogan "the bigger, the better". E' un campo in cui decisamente non c'è pericolo di risultare pacchiani. Non ho ancora visto un anello di diamante che potesse risultare eccessivo o fuori luogo. Neanche quello da 160,000£ avvistato da Tiffany (piccolo, scintillante eppure in qualche modo impegnativo da portare al dito...).

E' bene conoscere i propri limiti, e penso proprio di potermi scordare un anello che costa quanto un appartamento. Però l'anello di fidanzamento rappresenta un impegno, giusto? Pare di capire che venga regalato insieme ad una proposta di matrimonio. E' giusto che un uomo ci pensi 10 volte prima di fare questo passo. Dovrebbe significare che è pronto a sposarsi anche domani e a passare tutta la vita insieme all'altra persona. Se è pronto a tutto ciò, spero proprio che non si presenti con un anello da 900€. Come a dire, sì, mi impegno ma senza rischiare troppo. Magari me lo ridai nel caso. Come quando compri un biglietto della Ryan Air a 50€ pensando, "al massimo non parto". It would slightly defeat the purpose, direi.

Let her family pay for the wedding, come da tradizione. Ma allora lasciamo anche che l'uomo dimostri la sua serietà di intenti in un modo che è veniale, ma che è uno dei più importanti modi di comunicare che conosciamo.

venerdì 27 febbraio 2009

Stavo per

Questo post stava per avere un tema positivo, volto alla speranza.
Stavo per scrivere delle cattive impressioni che si rivelano sbagliate, dei giudizi troppo duri che diamo spesso sulle persone. Stavo per parlare della mia amica H., ma in qualche modo mi e' passato l'entusiasmo.

Mi e' venuta in mente, al contrario, tutta la fenomenologia opposta. Persone che idealizziamo, che eleviamo a modello, perfino, ma che poi rivelano tutta la loro debolezza, la mancanza di fermezza e di integrita' di spirito.

Ci rendiamo conto in questi casi che that very thing che ammiravamo in loro non era altro una nostra percezione, un miraggio, uno scherzo relazionale. Sono umani e profondamente patetici, come noi: in qualche modo e' una semplice ma destabilizzante verita'.

Ci si sente quasi ingannati.

martedì 24 febbraio 2009

Vergogna & co.

Questo week end mi è capitato di parlare del senso di vergogna o imbarazzo.
La riflessione è nata da un saggio di danza a cui ho assistito, in cui 90 donne della mia età ballavano al ritmo delle canzoni pop degli ultimi anni, formando improbabili coreografie e indossando improbabili costumi. Un livello di bravura che sarebbe accettabile in una bambina di 10 anni era tranquillamente sfoggiato da queste signore di fronte al pubblico pagante (poco, ma pagante).

Il fatto di cui si discuteva non era tanto che loro stesse non si vergognassero, quanto che noi (pubblico) ci vergognassimo per loro. E' un sentimento interessante, per vari motivi. Per prima cosa perchè non si capisce da dove nasca, e Freud e il suo Motto di spirito non contribuiscono in alcun modo a delineare la sua causa. E' interessante anche perchè spesso capita di vergognarsi al posto di qualcun altro, nella vita di tutti i giorni.

Comportamenti fuori tempo, over the top, insensati, patetici, ultimamente ridicoli. E persone che non si rendono neanche conto del loro essere imbarazzanti. Forse l'imbarazzo nello spettatore nasce dalla mancanza di rispetto verso la persona che si mette in ridicolo. La rispettiamo così poco da non pensare che possa provvedere al suo stesso imbarazzo e porsi un limite da sola, rendersi conto e smetterla di rendersi ridicola. Ci aspettiamo il peggio. Non ci fidiamo della sua capacità, e in qualche modo ci sentiamo responsabili per lei.

La manifestazione peggiore, più repressa ma forse più diffusa, di questo sentimento, è vergognarsi del proprio partner. Forse è per questo che monitoriamo attentamente il comportamento del fidanzato/a quando siamo in compagnia. Vogliamo vedere se questa persona, socialmente parlando, "se la sa cavare da sola" o se al contrario dobbiamo costantemente intervenire, supplire alla sua mancanza di carattere. Mi è capitato spesso in passato di dissociarmi completamente dall'atteggiamento della persona che ai tempi avevo a fianco, a volte anche di vergognarmi.

Se la mancanza di questo tipo di indipendenza risulta accettabile (nel senso che per molti uomini non è un problema) nella fidanzatA, sicuramente al contrario vogliamo che l'uomo che abbiamo a fianco sia indipendente, influente, carismatico, affascinante.

Forse è la prima volta che posso stare tranquilla da questo punto di vista. Che non devo continuare a giustificarlo tirando in causa il carattere, la stanchezza, le abitudini, le idiosincrasie. A lui basta presentarsi col suo maglioncino rosso e i capelli Pantène, e io posso sit back, and relax. Potrei firmare una carta bianca riguardo a tutta la sua gamma di comportamenti sociali. So che sa parlare di tutto, so che sa ascoltare, che ha un senso dell'umorismo elastico e adattabile. Sa riempire gli spazi in modo pacato ma sicuro.

Ovviamente tutto ciò non basta, ma troppo spesso sottovalutiamo l'importanza di questo tipo di sentimenti. Li mettiamo a tacere perchè ci sentiamo in colpa, ci sentiamo cattivi. Spesso finiamo per sposare persone che non rispettiamo, di cui a volte ci capita di vergognarci, e ci condanniamo ad una vita di coppia chiusa. Almeno se siamo solo in due ci risparmiamo quel fastidioso senso di imbarazzo. Al massimo quelle due o tre coppie di amici di lunga data, ma nessun rischio, nessuna sperimentazione, nessun mescolare gli ambiti. Come direbbero i Cesaroni, che amarezza.

sabato 14 febbraio 2009

British jobs to British workers

Allora, abbiamo appena detto di non cercare scuse e ammettere di avere fallito. Solo che poi si viene a scoprire che 10 su10 candidati che hanno avuto successo sono inglesi. La proporzione era 1/3 con 2/3 di "international students".
Ora mi chiedo: se per avere un lavoro equivalente a un uomo devo essere brava il doppio, e per avere un lavoro in un'azienda inglese devo essere 3 volte più brava di un inglese, in tutto 3*2=6 in media, però per avere il lavoro di un uomo inglese, allora 3*2*2=12. O forse dovevo sommare? O elevare a potenza?
Torno a ripassare matematica. Vista la bleak situation, sarà meglio prepararsi bene.